Per anni i militari inviati in zone dove la guerra c’era o c’era stata sono tornati ammalati. I problemi più frequenti e vistosi erano e restano l’insonnia, l’irrequietezza e la difficoltà di memoria a breve; ma a volte c’è altro, e quell’altro è cancro. Per anni a livello ufficiale si pretese che tutto ciò non fosse vero. Poi la verità uscì e i tribunali cominciarono a sentenziare a favore dei reduci ammalati o delle famiglie di reduci morti.
Le malattie di cui quei militari soffrono sono comunemente dette “da uranio impoverito”, anche se la dizione può essere fuorviante.
Per comprendere i fatti è necessaria una spiegazione preliminare riguardante l’uranio impoverito.

Si tratta di un metallo di scarto da impieghi nucleari che viene utilizzato nei proiettili e nelle bombe in ragione delle sue capacità di penetrazione e della sua piroforicità, cioè della proprietà di generare altissime temperature quando, a contatto con l’ossigeno atmosferico, subisce un urto. E questo è ciò che avviene quando l’ordigno colpisce il bersaglio.
La temperatura raggiunta supera i 3.000 °C ed è sufficiente a far vaporizzare almeno in parte l’obiettivo. Il fenomeno consegue nella rottura, spesso fino alla forma atomica, delle molecole che costituiscono il bersaglio. Non appena quegli atomi o quelle piccole molecole scagliate lontano dall’esplosione raggiungono una zona più fredda si condensano per formare particelle. Queste restano sospese in aria e vengono inalate da chi è eventualmente presente, venendo pure ingerite dopo essere cadute su frutta, verdura e cereali usati poi come alimenti. Da qui le patologie.

Qualunque esplosivo produce effetti simili, ma l’uranio ha la particolarità di generare temperature più alte rispetto ad altre sostanze, dunque, di dare origine a particelle più fini e, per questo, più penetranti. Meno usato ma, comunque, con qualche impiego, è il tungsteno, un elemento che, usato come arma, produce una temperatura intorno ai 5.000 °C con tutto quanto ne consegue.
È fin troppo ovvio, e lo si è constatato con le nostre indagini in laboratorio, che non sono solo i militari ad ammalarsi ma chiunque, per qualunque ragione, si trovi nella zona interessata dalle polveri, animali compresi. Ed è altrettanto ovvio che quel tipo d’inquinamento sia presente non solo dove si combatte veramente ma dove si eseguono manovre con esplosioni come quelle che si svolgono nei poligoni di tiro militari.
Se nei luoghi comunemente inquinati dove non ci sono attività belliche le patologie impiegano tempi a volte anche molto lunghi a manifestarsi, non così per le zone di guerra. Là le quantità e le concentrazioni di particolato sono altissime e, di conseguenza, il soggetto rischia di esserne rapidamente attaccato. Così le patologie diventano evidenti a volte anche nel giro di pochi mesi.
Va ricordato che nella maggior parte dei casi le particelle che si formano dalle esplosioni sono indistruttibili e non esiste possibilità pratica di bonifica. In aggiunta, come per tutte le particelle, a maggior ragione se di piccole dimensioni, anche quelle in oggetto sono capaci di spostarsi su distanze che possono essere enormi. Le conseguenze sono che la patogenicità si può manifestare anche lontano dal luogo dove è avvenuta l’esplosione e anche dopo molto tempo.
Può essere interessante notare come nei campioni bioptici e autoptici relativi alle patologie chiamate impropriamente “da uranio impoverito” siano rilevabili le particelle che il soggetto ha inalato e ingerito e in queste non si trovi di norma l’uranio né traccia di radioattività. Questo per almeno due motivi. L’uranio che fa parte di un proiettile o in una bomba ha un volume tanto piccolo da risultare quasi irrilevante rispetto a quanto viene polverizzato. Inoltre l’uranio, pesante com’è (oltre 19 volte il peso specifico dell’acqua), tende a cadere entro un raggio centrato sul punto d’impatto relativamente breve, con questo sottraendosi alla possibilità di combinarsi con altre sostanze e di galleggiare in atmosfera.
Il nostro laboratorio ha analizzato oltre 200 casi di patologie legate all’attività bellica, collaborando spesso con successo con avvocati per far ottenere risarcimenti ai soggetti oggettivamente danneggiati.
Le malattie di cui quei militari soffrono sono comunemente dette “da uranio impoverito”, anche se la dizione può essere fuorviante.
Per comprendere i fatti è necessaria una spiegazione preliminare riguardante l’uranio impoverito.

Detriti a base di Cobalto in fegato di militare affetto da Gulf War Syndrome esposto ad inquinamento bellico.
Si tratta di un metallo di scarto da impieghi nucleari che viene utilizzato nei proiettili e nelle bombe in ragione delle sue capacità di penetrazione e della sua piroforicità, cioè della proprietà di generare altissime temperature quando, a contatto con l’ossigeno atmosferico, subisce un urto. E questo è ciò che avviene quando l’ordigno colpisce il bersaglio.
La temperatura raggiunta supera i 3.000 °C ed è sufficiente a far vaporizzare almeno in parte l’obiettivo. Il fenomeno consegue nella rottura, spesso fino alla forma atomica, delle molecole che costituiscono il bersaglio. Non appena quegli atomi o quelle piccole molecole scagliate lontano dall’esplosione raggiungono una zona più fredda si condensano per formare particelle. Queste restano sospese in aria e vengono inalate da chi è eventualmente presente, venendo pure ingerite dopo essere cadute su frutta, verdura e cereali usati poi come alimenti. Da qui le patologie.

Detriti a base di Mercurio-Selenio trovati in rene di militare affetto da Gulf War Syndrome esposto ad inquinamento bellico.
Qualunque esplosivo produce effetti simili, ma l’uranio ha la particolarità di generare temperature più alte rispetto ad altre sostanze, dunque, di dare origine a particelle più fini e, per questo, più penetranti. Meno usato ma, comunque, con qualche impiego, è il tungsteno, un elemento che, usato come arma, produce una temperatura intorno ai 5.000 °C con tutto quanto ne consegue.
È fin troppo ovvio, e lo si è constatato con le nostre indagini in laboratorio, che non sono solo i militari ad ammalarsi ma chiunque, per qualunque ragione, si trovi nella zona interessata dalle polveri, animali compresi. Ed è altrettanto ovvio che quel tipo d’inquinamento sia presente non solo dove si combatte veramente ma dove si eseguono manovre con esplosioni come quelle che si svolgono nei poligoni di tiro militari.
Se nei luoghi comunemente inquinati dove non ci sono attività belliche le patologie impiegano tempi a volte anche molto lunghi a manifestarsi, non così per le zone di guerra. Là le quantità e le concentrazioni di particolato sono altissime e, di conseguenza, il soggetto rischia di esserne rapidamente attaccato. Così le patologie diventano evidenti a volte anche nel giro di pochi mesi.
Va ricordato che nella maggior parte dei casi le particelle che si formano dalle esplosioni sono indistruttibili e non esiste possibilità pratica di bonifica. In aggiunta, come per tutte le particelle, a maggior ragione se di piccole dimensioni, anche quelle in oggetto sono capaci di spostarsi su distanze che possono essere enormi. Le conseguenze sono che la patogenicità si può manifestare anche lontano dal luogo dove è avvenuta l’esplosione e anche dopo molto tempo.
Può essere interessante notare come nei campioni bioptici e autoptici relativi alle patologie chiamate impropriamente “da uranio impoverito” siano rilevabili le particelle che il soggetto ha inalato e ingerito e in queste non si trovi di norma l’uranio né traccia di radioattività. Questo per almeno due motivi. L’uranio che fa parte di un proiettile o in una bomba ha un volume tanto piccolo da risultare quasi irrilevante rispetto a quanto viene polverizzato. Inoltre l’uranio, pesante com’è (oltre 19 volte il peso specifico dell’acqua), tende a cadere entro un raggio centrato sul punto d’impatto relativamente breve, con questo sottraendosi alla possibilità di combinarsi con altre sostanze e di galleggiare in atmosfera.
Il nostro laboratorio ha analizzato oltre 200 casi di patologie legate all’attività bellica, collaborando spesso con successo con avvocati per far ottenere risarcimenti ai soggetti oggettivamente danneggiati.